Una lettura clinica della perversione
“[…] morire è solo non essere visto”, Fernando Pessoa
L’esibizionismo è la parafilia per la quale il soggetto, solitamente di sesso maschile, prova piacere nel mostrare proprie parti intime o i genitali ad uno o più estranei ignari, siano essi adulti o bambini; talvolta questa esposizione può essere accompagnata anche dalla masturbazione (Colombo 2001).
Il soggetto può essere consapevole del suo bisogno di sorprendere, scandalizzare o impressionare lo spettatore involontario tuttavia vive la necessità stringente di mostrarsi e di beneficiare dell’effetto che farà sulla vittima.
L’esibizionista in termini psicopatologici, non è una persona che prova piacere nell’essere guardato volontariamente, ma desidera imporre le proprie condizioni, le proprie regole alla vittima designata. In questi tratti si legge l’odio e la prevaricazione che, secondo Stoller (1985), si manifesterebbe attraverso la disumanizzazione della volontà dell’altro. Chi è vittima di una azione parafilica subisce una imposizione, un atto violento nella misura in cui non è ricercato, scelto o voluto; la persona non è più individuo ma viene considerato un mero oggetto verso cui proiettare degli impulsi: l’altro è reso una “cosa”.
L’età di esordio di questa parafilia è all’incirca intorno ai 18 anni, tuttavia si possono trovare già in potenza le radici di questa perversione in alcuni sogni, nelle fantasie, in alcuni atti parziali intrapresi a scuola o in alcuni contesti di socializzazione in cui l’adolescente immagina come sarebbe imporre la sua volontà esibizionistica a persone estranee. Lo sviluppo e le manifestazioni più franche avvengono con l’età adulta e tendono ad avere una fase di deflessione dopo i 40 anni. Questi indici, tuttavia, devono essere letti alla luce di una letteratura che non è ancora in grado di darci dati certi in merito alla genesi e allo sviluppo di questi disturbi (Boccadoro e Carutti 2009). Perché si possa tracciare una diagnosi di esibizionismo, è necessario che questa patologia si manifesti per almeno sei mesi e che le fantasie, gli impulsi ed i comportamenti ad esso associati causino un significativo disagio nella persona, tale da compromettere alcune aree importanti della sua vita sociale e lavorativa (Invernizzi 2000). In ambito clinico si riscontra una significativa comorbidità di questa parafilia con altri disturbi della stessa sfera: da uno studio condotto da Abel e Rouleau (1990) emerse che circa il 25% dei pazienti parafilici avevano avuto almeno un episodio di esibizionismo. Da questo dato si potrebbe ipotizzare che l’esibizionismo, per alcuni suoi caratteri specifici (quali la distanza fra vittima e aggressore, il coinvolgimento parziale, la possibilità di fuga) sia una prima modalità di espressione ed esplorazione di disagio parafilico.
L’esibizionismo appartiene alle perversioni coercitive (ovvero che vengono agite senza il consenso dell’altro) e che non prevedono contatto; come nel voyeurismo, la persona esprime la sua carica sadica mettendo la vittima nelle condizioni di sottostare alla sua violenza a distanza. Questa perversione può essere enumerata fra le condotte devianti che impegnano il canale visivo: tutto si gioca in una dinamica fra chi espone e chi è obbligato a vedere. Vittima e soggetto parafilico vengono legate nel gioco perverso in cui il piacere dell’uno diventa abuso dell’altro. Solitamente queste azioni, che avvengono in contesti aperti quali parchi, centri commerciali, zone pubbliche, non terminano con un contatto diretto fra esibizionista e vittima. Egli mantiene sempre uno spazio fra sé e l’altro, un limite che gli consente di avere margine per ritirarsi e per non entrare in un vero rapporto; la paura più profonda dell’esibizionista è l’intimità della relazione. Ciò che eccita profondamente questo soggetto non è intraprendere una attività sessuale reale, il vero stimolo erotico nasce dalla fantasia di scioccare chi osserva e di imporgli il proprio volere. Il fine dell’atto esibizionistico non è mai quello di sedurre: tutto il piacere deriva esclusivamente dall’esibizione (Benvenuto S. 2005).
Nei soggetti affetti da questo disturbo l’impulso a mostrare i propri genitali sembra essere irrefrenabile ed è scatenato, oltre che dal desiderio di esporsi, anche dall’ansia, dall’agitazione e dal disagio che subentra nel non farlo. In questa luce sembra che le perversioni siano assimilabili per alcuni versi alle condotte di abuso: il parafilico che non agisce il suo impulso va incontro ad una sindrome da astinenza del tutto simile a quella che avrebbe un paziente che soffre una tossicodipendenza. Da questa prospettiva anche la masturbazione compulsiva, a volte presente prima e durante gli atti esibizionistici, avvalora l’idea che alla base di questa perversione ci sia un bisogno incolmabile mai sanato, mai profondamente saziato. L’esibizione potrebbe allora rappresentare una coazione a ripetere, una modalità di ricerca costante di conferma da parte della vittima, una strategia per riempire quel bisogno irrisolto. È interessante osservare come le esposizioni possano essere ripetute anche con una determinata frequenza, persino nello stesso luogo e nella stessa giornata: l’esibizionismo assume della caratteristiche rituali (Kring A.M., Davison G.C., Naele J.M., 2008). Anche in questa componente si può intuire un aspetto della fragilità della persona: le stesse azioni, gli stessi contesti e le stesse situazioni possono essere ricercate sia perché implicitamente associate al piacere dell’esperienza precedente, sia perché di fatto l’esibizionista non si sente in grado di intraprendere altre modalità di relazione; in questa ottica il soggetto potrebbe tentare con la ripetitività delle azioni di controllare il numero maggiore di variabili gestendo la sensazione di non essere grado di strutturare una relazione paritaria con l’altro.
Fra le ipotesi che maggiormente sembrano trovare riscontro nella clinica di questa parafilia si ritrova quella citata da Stoller (1985) secondo cui l’esibizionista sarebbe stato un bambino che durante l’infanzia ha vissuto situazioni di umiliazione da parte dei genitori, in particolare da parte della madre, e che per tale ragione ha sviluppato un senso di rivalsa nei confronti di tutte le donne. Alla luce di questa interpretazione l’esibizionista sembrerebbe, attraverso il suo atto violento, volersi vendicare nei confronti della “madre”, volerla scioccare e farle pagare il prezzo della sua umiliazione. Implicitamente, attraverso l’esposizione dei genitali il soggetto chiede anche alla persona che osserva di rimandargli una immagine di sé, come se non fosse in grado autonomamente di avere coscienza del proprio valore di individuo. L’atto di mostrare i genitali quindi, permetterebbe all’esibizionista di ricostruire il senso della propria individualità perso nell’infanzia; l’esibizionista, come osserva anche Stoller (1985) è stato un bambino umiliato, non considerato; per questi motivi sperimenta perennemente un vissuto di perdita della propria identità, non come maschio ma in quanto persona.
Accanto alla rabbia di chi non è stato considerato e all’ingiustizia che l’esibizionista fa sperimentare alla vittima, egli racconta, negli spazi delle sue azioni, anche la storia di un bambino che non ha potuto beneficiare dello sguardo rassicurante dei propri genitori. Frequentemente questi uomini sentono di non aver avuto nessun impatto sulle proprie figure di accudimento, percepiscono profondamente che nessuno gli ha mai offerto uno sguardo di valore, come se avessero stabilizzato interiormente il non-diritto ad essere guardati; questi bambini, ora adulti, secondo Mitchell (1988) hanno dovuto ricorrere, per fuggire l’angoscia della negazione di sé, a misure straordinarie per farsi notare.
Bibliografia
Abel G.G., Rouleau J.L, 1990. The nature and extent of sexual assault. In Mersal, W.L. Laws D.L., Barberee HE, Handbook of sexual assault: issues, theories and treatment of the offender, Plenum Press
Benvenuto S., 2005. Perversioni. Sessualità, etica e psicoanalisi. Bollati Boringhieri
Boccadoro L., Cerutti S., 2009. Il posto dell’amore negato. Sessualità e psicopatologie segrete. Tecnoprint
Colombo G., 2001. Disturbi del comportamento. In: Colombo G., 2001. Manuale di Psicopatologia Generale, Cleup
Kring A.M., Davison G.C., Naele J.M., 2008. Psicologia Clinica. Zanichelli
Invernizzi G., 2000. Manuale di Psichiatria e Psicologia Clinica. McGraw-Hill
Mitchell 1988. Relational Concepts in Psychoanalysis: An Integration, Harvard University Press
Stoller, R.J., 1985. Observing the Erotic Imagination, Yale University Press
Pubblicato su www.benessere.com [ vai all’articolo ]